domenica 7 giugno 2009

SCRITTURA: INTENZIONE ED INTERPRETAZIONE

Quando si scrive bisogna sapere a chi ci si rivolge, scegliere con che tono rivolgersi a quel destinatario e decidere, anche solo nebulosamente, cosa dirgli.
Tutto questo può essere la base di quella che intenderemo come "intenzionalità" dell'autore. Ma facciamo un pratico esempio. Dante scriveva a tutti, guelfi e ghibellini, patrizi e pleblei, uomini di Chiesa e laici; volle usare, quindi, il volgare, ovvero la lingua di maggiore diffusione ed il genere comico, quello che parte affannosamente ma ha un lieto fine; infine decise di descrivere un viaggio dell'anima, un percorso di rigenerazione, di Resurrezione che lo porta alla visione di Dio.
Altro poi, oltre al messaggio, è come vari uomini hanno letto, percepito Dante, le sue parole. Perché nella bellezza e nella difficoltà della diversità ognuno di noi assimila Dante in modo diverso: a chi preme sottolineare il carattere satirico, antipapale; a chi quello pietoso; a chi quello didascalico; a chi quello enciclopedico.
Possiamo dire che 10 lettori darebbero 10 interpretazioni diverse, 100 lettori 100, 1000 1000. Estremizzando, N numero di lettori darebbero N risposte sulla Commedia di Dante Alighieri.
In questa diaspora del significato, in quest'individualismo della lettura, in questa moltiplicazione dell' "io", (così perfettamente analizzata dai romanzi psicologici di inizio Novecento, in particolare da Pirandello), Dante è infinito. Come ogni grande autore.
Così ad esempio accade per la Bibbia. Ed io mi trovo molto spesso in disaccordo con quanti sostengono che il prossimo sia il tuo vicino di casa e non l'africano. Per me sono l'uno e l'altro.